martedì 29 maggio 2012

L’ABBAZIA DI VALVISCIOLO

L’abbazia dei Santi Pietro e Stefano di Valvisciolo 1, ubicata nelle vicinanze di Sermoneta in provincia di Latina, è tappa essenziale di un itinerario che si dipana tortuoso tra i miti e le leggende sorte attorno al controverso Ordo Militum Templi.
Il fatto che sulla storia di Valvisciolo pesino ancora molte incertezze per mancanza di documenti non fa che accrescere l’alone di mistero che circonda il complesso abbaziale, che si erge austero in un idilliaco paesaggio di uliveti e vigne. Fondato da monaci, probabilmente basiliani, esso sarebbe poi passato ai Templari, che si sarebbero occupati del suo restauro, ed infine ai Cistercensi, che, come ben sappiamo, erano legati ai Poveri Cavalieri di Cristo tramite Bernardo di Chiaravalle. Alla luce del fatto che dopo lo scioglimento dell’Ordine del Tempio alcuni dei suoi membri si sarebbero aggregati ad altre comunità monastiche, tra i Cistercensi di Valvisciolo vi potrebbero essere stati alcuni dei Templari che avevano in precedenza occupato l’abbazia ma purtroppo queste restano soltanto delle ipotesi non essendoci notizie scritte che possano fare chiarezza sui vari passaggi.
Scolpita nello splendido rosone della chiesa è stata ritrovata, qualche anno fa, una croce patente, ma per alcuni studiosi questa non costituirebbe la prova certa che appartenenti all’Ordine del Tempio siano vissuti, per un certo periodo, a Valvisciolo, poiché croci di questo tipo sono state rinvenute in altre abbazie, come quella di Casamari, in cui non è mai stata dimostrata una presenza templare. Ciò che questi studiosi non considerano è il fatto che l’Abbazia di Valvisciolo sia un vero e proprio scrigno di simboli arcani, molti dei quali facenti parte del “repertorio” dei monaci-guerrieri.
Ma andiamo per ordine ed iniziamo a descrivere il complesso abbaziale che appare spoglio, con pietre a vista, nel pieno rispetto dei canoni dei Cistercensi che non prevedevano orpelli architettonici poiché ritenuti futili ai fini spirituali. Nella loro Regola è infatti precisato che i monasteri dovevano essere organizzati in maniera funzionale, in modo da potervi trovare lo stretto necessario ovvero “acqua, un mulino, un orto e reparti per le varie attività, così che i monaci non debbano girovagare fuori: ciò infatti non reca alcun vantaggio alle loro anime”. È pertanto evidente che disciplina e rigore contraddistinguessero la vita quotidiana dei religiosi.
La chiesa ha una facciata a capanna composita su cui spiccano una finestrella rotonda e, al di sotto, un gigantesco rosone a dodici raggi, i quali, uniti tra loro da semicerchi, formano i petali di una rosa. Eviterò di dilungarmi sul numero dodici e sul cerchio in quanto ne ho già discusso in precedenza, mentre per quanto riguarda la rosa illuminanti sono le parole dello scrittore Umberto Eco: La rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno2. Centro mistico, simbolo delle nozze alchemiche, espressione di perfezione, emblema femminile per antonomasia associato ad Iside, Venere e alla Vergine Maria: questi sono soltanto alcuni esempi. Basti pensare che i significati cambiano di volta in volta a seconda del numero dei petali e del colore.
L’architrave del portale presenta, sui peducci, semplici decorazioni tra cui una figura umana che ricorda un orante: nell’iconografia cristiana l’orante rappresenta l’anima del defunto in preghiera ed, al tempo stesso, il desiderio di elevazione da parte dell’uomo, ma nel caso di Valvisciolo, le braccia, solitamente tenute sollevate verso il cielo, sono invece abbassate verso terra, quasi a voler trarre sostentamento e ricercare il legame perduto con essa. C’è anche una crepa che niente ha a che vedere con l’incuria umana o con l’inclemenza del tempo poiché essa è legata ad una leggenda medievale secondo cui, alla morte del Gran Maestro dei Templari, Jacques de Molay, avvenuta nel 1314, le architravi delle chiese dell’Ordine si sarebbero spezzate, compresa appunto quella dell’abbazia di Valvisciolo.
La lunetta sopra il portale è affrescata con la Vergine ed il Bambino, Santo Stefano, riconoscibile dai segni del martirio, ed un altro santo non ben identificabile, forse San Benedetto, mentre nell’intradosso dell’arco una mano benedicente accoglie il visitatore prima che questi varchi la soglia della chiesa. Quest’ultima opera, purtroppo, non è in buone condizioni, tuttavia sono ancora visibili, oltre la mano, quelli che sembrano due fiori stilizzati, che hanno immediatamente attirato la mia attenzione. Nell’affascinante saggio intitolato “Le Grotte, i Cavalieri, le Logge3 compare la foto di un affresco rinvenuto, durante i lavori di restauro, nell’intradosso dell’arco di una antica porta ubicata sul lato nord del Battistero della città di Osimo: si tratta di una croce templare e gruppi di stelle, che per la forma particolare ricordano i “fiori” di Valvisciolo e che secondo lo studioso ed esperto in simbologia medievale, Fabrizio Bartoli, potrebbero far parte di un codice segreto utilizzato dai Cavalieri dell’Ordine.
All'interno, la chiesa di Valvisciolo rispecchia la sobrietà dell’esterno: non molto ampia, con pilastri rettangolari poco slanciati e piuttosto massicci e pareti prive di affreschi. A sud di essa sono ubicati gli altri ambienti, che si articolano, come in ogni abbazia cistercense, attorno al chiostro quadrangolare, che costituisce, a mio avviso, la parte più interessante dell’intero complesso. È qui, infatti, che si ha la maggiore concentrazione di simboli.
Sulle pareti - soprattutto su una porzione d’intonaco originale della parete ovest - sulle colonnine e sul muretto perimetrale che circondano il giardino centrale, si trovano incisi, a volte semplicemente graffiti, spirali, quadrati, triplici cinte, stelle polari e nodi di Salomone. Un nodo molto grande, si trova, scolpito in rilievo, sotto la chiave di volta dell’antico refettorio posto sul lato sud del chiostro: la scelta di raffigurarlo nella sala in cui l’intera comunità si riuniva per consumare i propri pasti rivela come questo simbolo, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, avesse per i monaci una particolare valenza spirituale. Lo stesso discorso vale per la triplice cinta, che a Valvisciolo compare per due volte, e per il “centro sacro” 4. La triplice cinta, figura risalente alla preistoria, è costituita da tre quadrati, posti uno dentro l’altro, e sembra abbia ispirato il famoso gioco del “filetto” che troviamo solitamente sul retro delle scacchiere 5. La presenza di questo simbolo in chiese ed abbazie, come nel caso di Valvisciolo, è stata dunque spiegata come una forma di svago per monaci annoiati, ma non è stato considerato il fatto che esso è spesso inciso su pareti verticali o in posizioni scomode, come ad esempio sui gradini di scale, e che esiste anche in versione circolare. Data la sua diffusione, questa figura ha dato origine ad una miriade di speculazioni per fortuna meno semplicistiche di quella appena menzionata: rappresentazione dei tre gradi di iniziazione esoterica (Renè Guenon), raffigurazione del Mondo terrestre, del Mondo degli astri e del Mondo divino (Louis Charbonneau-Lassay), emblema della Trinità cristiana, talismano magico-protettivo, percorso iniziatico o landmark usato per contrassegnare zone particolarmente energetiche 6. Per quanto concerne invece il cosiddetto “centro sacro”, questo è formato da uno o più quadrati nei quali sono iscritti otto (numero dell’infinito) raggi 6 ed è possibile che derivi dalla triplice cinta.
Tra tutti questi affascinanti simboli si distingue il palindromo SATOR 7, su cui è d’obbligo spendere qualche parola anche se, per la complessità dell’argomento, esso meriterebbe una trattazione a parte.
Il SATOR o quadrato magico ha come caratteristica il fatto di essere composto da parole che possono essere lette indifferentemente dall’alto verso il basso, dal basso verso l’alto, da destra verso sinistra e da sinistra verso destra.






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Le parole sono latine ad eccezione della seconda, Arepo, che non compare in alcun vocabolario e che è stata interpretata come un nome proprio o spiegata con il termine di origine celtica àrepos, che significa "carro". Nel primo caso avremmo dunque «Il seminatore Arepo o Arepone tiene con cura le ruote» mentre nel secondo caso «Il seminatore, con o sopra il carro, tiene con cura le ruote». Entrambe queste “criptiche” traduzioni sembrano avere carattere religioso, dove il seminatore è in realtà Dio che vigila sul suo operato, ovvero sul mondo, e se per alcuni il SATOR è semplicemente un crittogramma utilizzato dai primi cristiani come segno di riconoscimento durante le persecuzioni di Roma, in quanto, spostando alcune delle lettere che lo compongono, si ricavano una croce e le parole PATERNOSTER, è altrettanto vero che le lettere possono essere combinate in così tanti modi da ottenere, di volta in volta, soluzioni sempre diverse, fra cui una invocazione satanica, che di religioso ha veramente poco!
Malgrado gli sforzi interpretativi di numerosi studiosi il contenuto del “quadrato magico” rimane tutt’ora un enigma; possiamo però affermare con certezza che il SATOR ebbe, per i popoli del passato, una grande importanza, dato che è stato rinvenuto in un numero vastissimo di siti archeologici, in varie parti d’Europa.
Il SATOR di Valvisciolo, tuttavia, si discosta dagli altri esempi in quanto le cinque parole che lo compongono non sono racchiuse in un quadrato bensì sono distribuite all’interno di cinque cerchi concentrici dal cui centro si dipartono cinque raggi che dividono la figura in altrettanti settori. Lo stesso disegno ad anelli, di dimensioni maggiori e privo di lettere, compare sul muro di sinistra del passaggio che conduce al chiostro. È palese che l’autore o gli autori abbiano voluto porre una particolare enfasi sul cinque che è numero sacro per eccellenza, tanto da essere alla base di molte figure geometriche “esoteriche” come, ad esempio, il pentacolo. Per la Cabala ebraica il cinque è un numero chiave, rappresentando infatti i vari livelli dell’anima, da Nefesh, l’anima inferiore legata al corpo fisico, a Yechidà, l’anima indissolubilmente unita con Dio. Se consideriamo che il misticismo ebraico ebbe, nel XIII secolo, terreno particolarmente fertile in Francia, che nelle credenze dei Templari vi erano probabilmente elementi di tradizione ebraica e che incisioni formate da cerchi concentrici, simili a quelle di Valvisciolo, sono state scoperte in edifici templari e a Royston, in Inghilterra, in una grotta dove i Cavalieri avrebbero tenuto riunioni segrete, ecco che si viene a creare un quadro generale in cui i membri dell’Ordine si collocano alla perfezione. Bianca Capone 8 aggiunge un tassello essenziale a questo intricato puzzle: analizzando i vari siti in cui il SATOR è stato riportato alla luce, la studiosa ha rilevato che molti di questi furono di proprietà dei Templari, ed è pertanto giunta alla conclusione che il SATOR sia stato utilizzato dai monaci-guerrieri per contraddistinguere “luoghi particolari”. Se le evidenze sembrano essere a favore dell'ipotesi secondo cui sarebbero stati i Cavalieri del Tempio a tracciare alcune delle enigmatiche incisioni sulle pareti dell’Abbazia di Valvisciolo resta comunque da individuare la vera ragione per cui i Cavalieri avrebbero adottato a Valvisciolo il simbolo del SATOR circolare. Riprendendo la tesi di Bianca Capone, possiamo formulare a nostra volta delle ipotesi:
1) Per segnalare che a Valvisciolo erano celati degli oggetti particolarmente preziosi?
Tra le numerose storie che circolano sui Templari c’è quella secondo cui, prima del famoso arresto in massa dei Cavalieri, sarebbero stati approntati tre convogli con il tanto favoleggiato tesoro dell’Ordine: un convoglio si sarebbe recato verso il porto de La Rochelle, uno verso la Linguadoca e l’altro verso l’Italia. I cavalieri diretti in Italia si sarebbero fermati prima in Liguria e poi nel Lazio, esattamente presso i loro confratelli di Valvisciolo. Questa tradizione sarebbe coerente con una leggenda che vuole che nei sotterranei dell’Abbazia sia stato un tempo nascosto parte del tesoro del Tempio, di cui avrebbero fatto parte il Santo Graal e l’Arca dell’Alleanza. Il cerchio viene spesso utilizzato per rappresentare la caverna o una qualunque cavità sotterranea.
2) Per indicare che a Valvisciolo erano custoditi i segreti della conoscenza templare?
Osservando con attenzione il SATOR di Valvisciolo, viene spontaneo pensare alla descrizione che il filosofo Platone fa della mitica Atlantide. Nel Crizia leggiamo che nel centro dell’isola atlantidea, in una vasta pianura, si ergeva una collina, che il dio Poseidone “rese ben fortificata” e “la fece scoscesa tutt'intorno, formando cinte di mare e di terra, alternativamente, più piccole e più grandi, l'una intorno all'altra, due di terra, tre di mare, come se lavorasse al tornio”. La figura che otteniamo, in base alla narrazione del filosofo greco, è proprio un insieme di cerchi concentrici. A ciò dobbiamo aggiungere il fatto che il continente atlantideo sarebbe stato un centro sapienziale, abitato da una razza molto evoluta. La pianta di Atlantide, dunque, potrebbe essere stata simbolicamente collegata alla Conoscenza. Senza tuttavia scomodare il mitico continente, il SATOR circolare assomiglia al disco solare, adorato e considerato da tutti i popoli antichi portatore di saggezza.
3) Per segnalare che nella zona su cui è sorta l’Abbazia l’energia tellurica è particolarmente avvertibile?
In effetti, nel caso del SATOR di Valvisciolo, i raggi che partono da centro potrebbero simboleggiare la forza irradiante proveniente dalle profondità della terra. Ciò confermerebbe che i Cavalieri Templari fossero adepti del culto della Grande Madre. Ma possiamo anche ricollegarci alla leggenda, citata in precedenza, che vuole che sotto l’abbazia siano stati custoditi il Graal e l’Arca dell’Alleanza, entrambi oggetti di grande potere emananti luce ed energia.
Per finire, il SATOR circolare ricorda, per la sua forma, un labirinto, un emblema che ritroviamo tra le decorazioni di alcune famose cattedrali gotiche come quella di Chartres in Francia e anche nelle pagine di alcuni testi alchemici e che simboleggia il faticoso e difficile percorso che il fedele deve intraprendere per potersi avvicinare a Dio.
Devo tuttavia ammettere che, nel momento in cui ho visto il SATOR di Valvisciolo, ho avuto la netta sensazione di trovarmi davanti ad un pentagramma musicale completo di note (le lettere del SATOR): la mia mente, infatti, ha spontaneamente ricollegato questa misteriosa figura al signum della influente famiglia Farnese, costituito da un albero tra le cui fronde spicca un curioso pentagramma circolare contenente note musicali che devono essere lette in chiave “ermetica” (In terra nostra flores apparuerunt, Romulado Luzi, Bonafede Mancini). Dopotutto non è nuova l’ipotesi che i Templari utilizzassero particolari codici musicali e a questo proposito rimando al capitolo sulla Cappella di Rosslyn.
A questo punto il lettore si sarà reso conto che non basterebbe un intero libro per descrivere e spiegare la complessa simbologia di Valvisciolo che, di certo, non fu tracciata a scopo ludico ma sembra piuttosto voler comunicare, in forma codificata, concetti che, per qualche motivo, dovevano rimanere segreti. L’impressione che nell’abbazia siano disseminati degli indizi è ulteriormente rafforzata dalla presenza di elementi che appaiono “fuori posto”, come una lucertola 9 scolpita alla base di una delle colonnine del chiostro o un piccolo volto abbozzato sullo stipite di una porta, che difficilmente possono essere considerati il frutto di un artista capriccioso.
La cosa si fa ancora più intrigante quando scopriamo che le mura esterne dell’abbazia presentano a loro volta dei segni, che purtroppo sono stati quasi cancellati dalle intemperie. Data la loro posizione, essi sembrano essere stati incisi con l’obiettivo di risultare visibili a chi passava nelle vicinanze dell’edificio. Di nuovo viene spontaneo pensare a dei messaggi criptici – forse degli avvertimenti, forse dei contrassegni - lasciati per qualcuno che era in grado di comprenderne il significato. Va a questo punto sottolineato che molti dei simboli descritti in queste pagine sono identici a quelli ritrovati graffiti sulle pareti della fortezza di Chinon, in Francia, in cui furono tenuti prigionieri il Gran Maestro templare Jacques de Molay ed il precettore di Normandia Goeffrey de Charney. Questo potrebbe non solo confermare l’esistenza di un codice segreto templare ma anche che i Templari furono un tempo stanziati a Valvisciolo.


Per approfondire…


1 L’origine del nome è incerta: potrebbe infatti derivare dal latino Vallis Lusciniea - valle dell’usignolo - o da Valle delle Visciole. La visciola è una qualità di ciliegia selvatica da cui si ottiene un ottimo vino ed altri prodotti alimentari.

2 Il nome della Rosa, Ed. Bompiani 1980.

3 Roberto Mosca, Angelo Renna, Osimo edizioni, pagina 22.
Osimo è nota per le sue gallerie e grotte scavate nel tufo che, poste su diversi piani, costituiscono una labirintica città sotterranea che si estende per parecchi chilometri. Un censimento parziale svolto negli anni ‘80 ha rilevato 88 tra grotte e nicchie e almeno un centinaio di pozzi.
Sulle pareti dei sotterranei vi sono dei bassorilievi o più semplici incisioni: è possibile ammirare alcune di queste opere nel tratto che è stato da poco aperto al pubblico, che, posto al di sotto di un antico convento francescano, mostra simboli tipicamente religiosi come croci e misteriose figure di frati i cui volti sembrano essere stati volutamente cancellati.
Le grotte di Palazzo Campana, in pieno centro storico, presentano stupefacenti bassorilievi rappresentanti personaggi tratti dalla mitologia pagana come Venere, Mitra, Bacco, mentre altri potrebbero essere d’ispirazione alchemica come una curiosa figura a due teste con coda di scorpione; altri ancora sfidano la comprensione umana con la loro oscura simbologia. Tutto questo sembra alludere ad un preciso itinerario esoterico ed è stato ipotizzato che all’interno di queste cavità si riunisse un Ordine iniziatico per svolgere cerimonie segrete.
Nelle grotte Simonetti sono ben visibili una Triplice Cinta scolpita nell’arenaria, considerata da Alfonso Rubino, noto studioso di geometria sacra, “la migliore sia al punto di vista geometrico che artistico”, e due croci ad otto punte, che non possono che rimandare ai Cavalieri Templari. Sotto via Matteotti c’è una delle grotte più interessanti, forse un antico mitreo romano, con bassorilievi di epoche diverse; in un corridoio, una piccola testa è stata identificata come il famoso Baphomet.
Ad Osimo esisteva una precettoria templare, considerata il più importante possedimento dell’Ordine nella regione. Inoltre i Templari osimani contavano tra i loro beni anche numerosi mulini e terreni. Potrebbe pertanto non essere campata in aria l’ipotesi che il misterioso Ordine che utilizzava i sotterranei di Osimo per i suoi riti di iniziazione fosse proprio quello dei Cavalieri Templari.

4 Molti dei simboli presenti a Valvisciolo sono stati ritrovati anche nella vicina Sermoneta, sui muri di alcune case del centro storico e di alcune chiese.
Incise sui gradini, sulle pareti e su una pietra del giardino della sagrestia della Cattedrale di Santa Maria Assunta (XII secolo) figurano alcune triplici cinte, croci patenti ed un centro sacro: un tale raggruppamento farebbe pensare che la chiesa o addirittura l’intero quartiere circostante fossero in passato di proprietà dei Templari che, dal 1162 al 1312, ebbero sede nel Convento di San Francesco; il convento era in origine un fortilizio che, dopo lo scioglimento dell’Ordine, passò ai frati francescani. Nella chiesa di San Michele Arcangelo (XII secolo) alla triplice cinta si aggiungono alcune stelle a cinque punte, che sono state rinvenute nel vicolo che porta fino all’edificio.
È curioso che sia la Cattedrale sia la chiesetta di San Michele siano sorte sui resti di due antichi templi pagani, con molta probabilità dedicati a Cibele e Maia, importanti divinità femminili legate alla Natura e alla Terra. Questo non farebbe che confortare la teoria secondo cui i Templari avrebbero creduto nella sacralità della Terra e nell’energia che da essa potevano derivare. A questo riguardo ci vengono nuovamente in aiuto le trascrizioni degli interrogatori che si svolsero a Firenze contro alcuni membri dell’Ordine, da cui apprendiamo che i Templari calpestavano la croce per trarne energia vitale” (per riferimenti vedi il capitolo su San Galgano). Siamo perciò nuovamente di fronte alla possibilità che i cavalieri del Tempio praticassero un culto naturalistico, di possibile ispirazione celtica, e a proposito di Celti è interessante notare che il magnifico borgo di Sermoneta ha una particolare struttura a spirale e che la spirale, in quanto rappresentazione dell’universo, era un motivo molto ricorrente nell’arte di questo popolo: poiché non esistono notizie precise sulle origini di Sermoneta c’è da chiedersi se una popolazione di origine celtica abbia vissuto in questo territorio, lasciando in eredità le proprie tradizioni e la propria simbologia.

5 Trovo significativo il fatto che un simbolo così complesso come quella della Triplice Cinta compaia associato alla scacchiera.
Formata da otto righe e otto colonne (l’otto oltre ad essere il numero dell’infinito è anche quello della conoscenza) di caselle bianche e nere, la scacchiera esprime la dualità, l’opposizione e la complementarietà dei principi: positivo e negativo, luce e oscurità, giorno e notte, maschile e femminile, e così via. Ma la scacchiera (e il quadrato in generale) corrisponde anche alla Terra, su cui l’uomo - il pedone - si muove a fatica tra le forze del Bene e del Male, cercando di superare gli ostacoli e di sopravvivere agli attacchi dei suoi “nemici” per dare infine scacco matto (dal grido persiano shah mat, il re è morto o sotto assedio). In questo modo egli si sostituisce al Re ottenendone lo status divino: nell’antichità, esisteva infatti il concetto che la regalità fosse un dono diretto di Dio. Siamo perciò di fronte alla concezione alchemica secondo cui l’essere umano può ritrovare e realizzare la sua essenza divina dopo aver portato a termine un determinato percorso.
La scacchiera - proprio come la Triplice Cinta - la possiamo trovare raffigurata in alcuni edifici religiosi, ad esempio nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, nel Duomo di Crema (CR), nel Duomo di Otranto (LE), nella Pieve di Sant’Agata a Scarperia (FI) e nella Pieve di S. Paolo Apostolo a Vico Pancellorum (LU).

6 Per approfondire l’argomento rimando al saggio di Marisa Uberti e Giulio Coluzzi, I luoghi delle Triplici Cinte in Italia. Alla ricerca di un simbolo sacro o di un gioco senza tempo?

7  Al momento uno dei SATOR più antichi è quello inciso su una colonna della Grande Palestra di Pompei. Tra i vari luoghi in cui il SATOR è stato ritrovato in Italia c’è la Collegiata di Sant'Orso ad Aosta, il Duomo di Siena, la Pieve di San Giovanni a Campiglia Marittima (Livorno) e la Certosa di Trisulti a Collepardo (Frosinone). Nella Pieve di Campiglia, scolpita all’interno della monofora della cappella di destra, è presente una figura umana, purtroppo priva di volto, che rappresenterebbe un contadino intento a spargere semi: potrebbe pertanto essere il misterioso “seminatore” citato nel SATOR.

8 B. Capone, L. Imperio, E. Valentini, Guida all'Italia dei templari. Gli insediamenti templari in Italia, Edizioni Mediterranee, 1997.

9 Un altro SATOR è raffigurato in un dipinto che si trova nel corridoio che conduce all’antica farmacia della certosa di Trisulti, a Collepardo in provincia di Frosinone.
La certosa fu costruita nel 1204 nei pressi di una abbazia benedettina e fu affidata prima ai Certosini ed infine ai Cistercensi di Casamari.
Purtroppo del complesso originario rimane ben poco in quanto fu completamente ristrutturato nel Seicento e nel Settecento e mostra pertanto una architettura barocca.
L’affresco con il SATOR fu realizzato, nel 1860 circa, dal pittore, filosofo ed esoterista napoletano Filippo Balbi. L’opera è piuttosto enigmatica in quanto raffigura il busto di un personaggio mitologico dalle inquietanti sembianze diaboliche, tale Abante, che sfoggia una folta barba bianca, una fronte spaziosa cinta da tralci di vite ed il petto ricoperto in parte da una pelliccia su cui penzola una zampa di capra e sui è posato un ramarro. Sul piedistallo spiccano non solo le parole del SATOR ma anche uno strano verso in rima: “Ma il cambiar natura è impresa troppo dura”.
Il fatto che una lucertola o un ramarro compaia anche nell’Abbazia di Valvisciolo, esattamente nel chiostro dove si trova anche il SATOR circolare, fa pensare che non si tratti di una coincidenza.
Tornando ad Abante, secondo la mitologia greca esso fu trasformato dalla dea Demetra in una lucertola per aver osato beffeggiarla. Dal punto di vista cristiano la lucertola, in quanto animale che cerca la luce del sole, rappresenta simbolicamente il desiderio di salvezza da parte dell’uomo, ma, per lo stesso motivo, possiamo collegarla anche alla saggezza, alla vera conoscenza. Inoltre la lucertola ha un’altra caratteristica che non va sottovalutata: essa muta la propria pelle più volte l’anno e pertanto esprime appieno il concetto di morte e rinascita. Questo potrebbe spiegare il significato della misteriosa iscrizione in versi nell’affresco di Balbi. Resta tuttavia da capire l’associazione, nel dipinto di Trisulti e a Valvisciolo, con il SATOR.









venerdì 18 maggio 2012

Il Sacro Speco di Subiaco


Nel 1461 papa Pio II lo definì un “nido di rondini”.
Il Santuario benedettino di Subiaco o Sacro Speco, una splendida struttura costituita da vari ambienti che si aggrappano letteralmente alle rocce a strapiombo del Monte Taleo, assomiglia piuttosto ad un nido di aquila. Su questo monte, alla fine del V secolo, si ritirò in preghiera Benedetto da Norcia: una scelta estrema che ricorda quella di altri eremiti “eccellenti”.
Di famiglia benestante, Benedetto fu inviato a Roma per compiere gli studi superiori ma rimase così sconvolto dalla dissolutezza e dalla corruzione che imperversavano a quei tempi nella capitale che fuggì, assieme alla fedele nutrice, ad Affile, nell'alta valle dell'Aniene. Da Affile si recò, da solo, a Subiaco, il cui nucleo si era sviluppato attorno agli antichi resti di una villa neroniana e dove già esisteva un monastero, retto da un certo abate Adeodato. Il giovane, desideroso di pace assoluta, trovò riparo in una piccola grotta (lo Speco), posta ai piedi del monastero, nella quale rimase per ben tre anni in meditazione, vestito di semplici pelli di capra ed ignorato da tutti eccetto che da un monaco, di nome Romano, che, di tanto in tanto, gli calava con una corda un po’ di cibo dalla rupe sovrastante. Furono anni aspri e terribili durante i quali non mancarono i momenti di disperazione. Si racconta infatti che l’eremita, preso dallo sconforto, stava per abbandonare il suo rifugio ma riuscì a vincere la tentazione gettandosi nudo tra le ortiche ed i rovi. Dopo questo lungo periodo di solitudine egli iniziò a ricevere la visita di alcuni pastori della zona che egli prese ad istruire sulla vera Fede. Fu quindi richiesto come superiore del monastero di Vicovaro, vicino Tivoli, ma per la sua eccessiva austerità si attirò l’odio dei confratelli che tentarono di ucciderlo offrendogli un calice di vino avvelenato, che, per miracolo, si frantumò nel momento in cui Benedetto lo benedì con il segno della croce. Benedetto tornò allora a Subiaco dove raccolse attorno a sé numerosi discepoli di ogni età e condizione sociale, tra cui barbari Goti, dando così vita ad una nuova esperienza basata sull’uguaglianza, sulla fratellanza e sulla Regola dell’ora et labora (preghiera e lavoro), che si rifaceva alla tradizione dei monaci orientali e che ben presto sarebbe stata adottata da tutte le comunità monastiche d’Occidente. Al primo monastero che Benedetto fondò a Subiaco se ne aggiunsero altri dodici più piccoli, composti ciascuno da dodici monaci guidati da un abate, ma purtroppo l’invidia da parte del clero locale ed un nuovo tentativo di avvelenamento costrinsero Benedetto a lasciare la casa-madre assieme ad un gruppo di fedelissimi. Si diresse a Cassino dove, nel 529 circa, fondò sopra un pre-esistente tempio pagano dedicato al dio Apollo uno dei più celebri monasteri d’Europa: Montecassino. Benedetto vi morì il 21 marzo (primo giorno di primavera) in un anno imprecisato tra il 547 ed il 550.
Chi ha letto il precedente post su San Galgano avrà notato che esistono delle intriganti analogie tra le vite dei due santi: similitudini che ritroviamo nella storia di San Francesco d’Assisi, la cui immagine, una delle più antiche che sono giunte fino a noi, è dipinta su una parete del Sacro Speco. Tutti e tre provengono da famiglie abbienti: il padre di Benedetto è Capitano Generale dei romani a Norcia mentre la madre è una contessa, la famiglia di Galgano appartiene alla piccola nobiltà locale e quella di Francesco alla borghesia. Tutti e tre, ad un certo punto, decidono di spogliarsi di ogni loro avere per condurre una vita di ascesi a stretto contatto con la Terra: un ritorno alle origini, rappresentato dalla scelta di ritirarsi in una grotta per quanto riguarda Benedetto e Galgano e nelle foreste per quanto riguarda Francesco. Quest’ultimo, addirittura, dedicherà a Madre Natura e ai suoi quattro elementi un magnifico cantico, conosciuto come Cantico delle Creature o di Fratello Sole. Infine il numero dodici: dodici sono i monasteri che Benedetto fonda dopo quello di Subiaco e dodici sono i monaci che li compongono, dodici sono i saggi che Galgano vede in sogno, dodici sono i compagni con cui Francesco inizia la sua predicazione.
In numerologia il dodici riveste una notevole importanza. È definito, infatti, il numero della completezza poiché riunisce in sé la materia (5) e lo spirito (7) = 5 + 7, ed è anche il numero della manifestazione della Trinità (3) sulla Terra (4) = 3 X 4, e non è dunque  un caso che dodici siano le tribù di Israele citate nell’Antico Testamento, gli Apostoli di Gesù Cristo, i segni dello zodiaco, i pianeti, i mesi dell’anno e le fasi del processo alchemico. Da sottolineare, inoltre, che esso può identificarsi anche con il cerchio, che è la forma geometrica più perfetta. Nel suo libro Il Re Del Mondo (Roma, 1950), Renè Guenon riporta le parole di Saint-Yves d'Alveydre, figura di spicco nel campo dell'esoterismo: “il cerchio più elevato e più vicino al centro misterioso è composto da 12 membri che rappresentano l’iniziazione suprema (facoltà, virtù, conoscenza)”. A questo proposito è interessante notare come uno degli emblemi di San Benedetto sia il corvo. Fu infatti l’intervento miracoloso di questo animale a salvarlo dal secondo tentativo di omicidio perpetrato dall’invidioso prete Fiorenzo; dalla Chiesa Superiore dell’Abbazia si accede ad un ampio cortile detto appunto "dei Corvi". In passato, qui si allevavano alcuni corvi per ricordare che fu proprio uno di questi uccelli che sventò il tentativo di avvelenamento perpetrato ai danni di san Benedetto, portando via, tra il suo becco, la pagnotta avvelenata che il prete Fiorenzo aveva offerto al santo. In simbologia, il corvo è associato alla morte iniziatica a cui il neofita di ogni culto misterico deve sottoporsi per poter rinascere in un essere illuminato ed, in alchimia, per via del suo colore scuro, esso rappresenta il primo stadio di trasmutazione della materia, la nigredo o opera al nero, corrispondente al processo di putrefazione che “distrugge la vecchia natura” e trasforma i corpi “in un nuovo stato” per far loro ritrovare una nuova vita (Pernety, 1758). È proprio questa fase di completa trasformazione che il giovane Benedetto attraversa, rinunciando al proprio passato per intraprendere il rigoroso cammino del monaco.
Entrando nel Sacro Speco di Subiaco è difficile non rimanere colpiti dai numerosi riferimenti all’antichissima scienza dell’alchimia o scienza di Dio, il cui obiettivo era quello di perfezionare l’essere umano. I vivaci colori utilizzati per gli affreschi tra cui prevalgono il nero, il verde, il bianco, il rosso e l’oro, ognuno con un particolare significato secondo la tradizione alchemica, le complicate forme geometriche che decorano pavimenti e pareti, tra cui spiccano cerchi, nodi e labirinti, figure smaccatamente esoteriche, la presenza di scale che mettono in comunicazione i due livelli della chiesa, inferiore e superiore, e le varie cappelle che sembrano costituire un percorso spirituale ben preciso, esprimono tutti un messaggio divino volto a risvegliare e cambiare permanentemente chiunque decida di ascoltarlo, e la conferma ci arriva da Gregorio Magno quando cita, nel II libro dei suoi Dialoghi, l’episodio di una pazza che, fermatasi a dormire nello Speco, “Al sorgere del giorno ne uscì fuori, ma con la ragione in così perfetto equilibrio, come se non avesse mai sofferto di malattia mentale”.
Per accedere ai locali del santuario si deve passare attraverso una porta piccola e stretta che, di primo acchito, può sembrare incongruente rispetto all’imponente struttura circostante ma che in realtà vuole essere di monito al visitatore, il quale, se vorrà intraprendere il difficile cammino di crescita spirituale, dovrà farlo con grande umiltà, lasciando fuori le proprie smanie di grandezza ed il proprio orgoglio.
Un corridoio illuminato da archi immette nella sala detta del Capitolo Vecchio, dalla quale si entra nella Chiesa superiore. Solitamente è da questo livello che comincia la visita al complesso, tuttavia per il nostro viaggio dell’anima dobbiamo scendere e compiere il percorso a ritroso, partendo dal basso, dalla Sacra Grotta, simbolicamente illuminata da dodici lampade. In questo modo raggiungiamo la prima tappa, che è l’alchemica discesa nella materia informe, nel principio originale, nelle viscere della terra feconda in cui l’uomo, simile ad un seme, può spogliarsi lentamente del proprio involucro esterno e germogliare a nuova vita.
Dalla caverna si sale al piano superiore decorato con scene di vita di Benedetto, realizzate nel XIII secolo da un certo Magister Conxolus.
Di particolare interesse sono due affreschi, il “Miracolo del Goto” ed il “Miracolo di S. Placido”, nei quali troviamo raffigurato uno dei laghi artificiali che furono creati per la suntuosa villa di Nerone. L’elemento principale dei due dipinti è dunque l’acqua, la sorgente della Vita, che è collegata alla seconda fase dell’opera alchemica, l’albedo o bianchezza, perché è grazie al “lavaggio” che è possibile passare dalla nigredo all’albedo, dal colore nero al colore bianco, e non può essere una coincidenza che in tutte e due le scene l’artista abbia voluto contrapporre alla veste scura del santo l’assoluto biancore del lago neroniano. Tuttavia per portare a termine la seconda tappa di questo itinerario alchemico sono necessari altri due elementi, la luna e la Regina bianca. Il “Miracolo del Goto” è, in questo caso, piuttosto significativo in quanto San Benedetto è qui raffigurato mentre immerge nell’acqua il bastone del contadino Goto, ricongiungendo miracolosamente ad esso il falcetto caduto, la cui forma ricurva è proprio quella della luna crescente.
Passando sotto una volta decorata con pavoni e cigni e scendendo per la cosiddetta Scala Santa, arriviamo alla Cappella della Madonna. Abbiamo così trovato il terzo emblema dell’albedo, ovvero la Regina.
L’albedo è solitamente simboleggiata dalla figura della dea Venere/Afrodite identificata come “stella del mattino”, che, nelle Litanie Lauretane, è, guarda caso, un epiteto associato a Maria.
Nella Cappella a Lei dedicata si possono ammirare l'Annunciazione, la Vergine Madre della Chiesa, la Madonna in trono col Bambino, l'Assunzione e l'Incoronazione: in questi due ultimi affreschi, Maria è abbigliata di bianco. Secondo l’iconografia medioevale occidentale la veste candida la identificherebbe come la Madre-Chiesa sposa del Cristo, un concetto non dissimile da quello espresso in alchimia, secondo cui la Regina vestita di bianco è la sposa che incarna il principio femminile che, unendosi al principio maschile rappresentato dal Re vestito di rosso o sposo, realizza le nozze alchemiche, grazie alle quali spirito e materia diventano finalmente tutt’uno: è da questa fusione di opposti che si ottiene la perfezione. Gesù, considerato l’uomo alchemico per eccellenza poiché è colui che mostra la vera Via, è collegato al colore rosso che è quello del fuoco (Io sono venuto a mettere il fuoco nella terra, e come vorrei che fosse già acceso! - Luca, XII, 49) e quello del sangue che Egli ha versato per l’umanità e che altro non è che forza trasmutatrice.
Giungiamo all’ultimo livello, alla Chiesa superiore, dove si consuma, prima, il dramma del Cristo, simboleggiato dalla Passione e dalla maestosa Crocifissione alla quale assistono le pie donna, vestite a loro volta di bianco, ed infine si inneggia alla vittoria finale sulla morte, la Resurrezione, la fase conclusiva dell’Opera alchemica o rubedo, che trova espressione attraverso la mitica fenice che rinasce dalle proprie ceneri proprio come il Cristo risorge dal sepolcro.
Il cammino termina con la consapevolezza che porta l’uomo a riconoscere la propria divinità interiore e a ritrovare la scintilla del Dio-Padre in tutte le creature e in tutte le manifestazioni.
L’alchimia era scienza conosciuta ai monaci benedettini, i quali annoverarono tra le loro fila i noti studiosi Basilio Valentino e Dom Antoine Pernéty, e trovo alquanto indicativo che il fondatore dell’Ordine sia sfuggito a ben due tentativi di omicidio per mezzo del veleno, sostanza che nella tradizione alchemica simboleggia il Caos, e che sia il santo patrono dei chimici.
Può tuttavia sorprendere che dei semplici monaci fossero anche degli eruditi ma la ricerca del sapere era, ed è tuttora, una componente essenziale della vita dei Benedettini, che furono anche rinomati copisti e miniatori. Basti pensare che la giornata dei monaci è ancora oggi organizzata in modo da esserci sempre il tempo necessario da dedicare alla lettura e allo studio. Le biblioteche dell’Ordine erano considerate veri e propri centri di cultura, in quanto raccoglievano innumerevoli libri ed antichi manoscritti, sia di autori cristiani che pagani, provenienti da molte parti del mondo, ed è pertanto logico che tra questi figurassero anche preziosi testi alchemici ed esoterici. Un esempio fra tutti è il Codex Rhenovacensis che proviene dalla biblioteca dell'abbazia benedettina di Rheinau, presso Zurigo.
Se consideriamo il Graal una metafora della vera conoscenza che porta all’illuminazione è lecito affermare che il monastero benedettino, così ricco di simbolismi, racchiuda tra le sue mura l’essenza stessa del Graal; se identifichiamo il Graal con la Madre Terra, ricordiamo che nel Sacro Speco è preponderante la pietra che costituisce l’ossatura della Terra stessa, da quella del monte Taleo che letteralmente abbraccia il complesso a quella della grotta su cui esso è stato edificato; se infine lo riteniamo un oggetto di culto legato a Cristo ecco che ci attende un’ultima sorpresa: si tratta di un piccolo affresco, quasi nascosto nel fondo di una nicchia scavata in una delle pareti della Chiesa Superiore, che raffigura un giovane Gesù imberbe alla maniera bizantina con le tipiche ferite al costato e sul dorso delle mani da cui scendono rivoli di sangue ed un calice d’oro, posto ai suoi piedi, da cui emerge un’ostia insanguinata. Come se non bastasse, possiamo trovare riassunti i molteplici aspetti del Graal nello spettacolare pulpito di marmo, la cui copia è visibile anche lungo il sentiero che conduce al monastero. Sormontato da un’aquila, animale associato all’apostolo Giovanni ma anche messaggero solare e perciò portatore di luce, esso sfoggia, nei suoi riquadri, simboli arcaici dai profondi significati occulti legati alla sapienza, alla geometria divina, al femminino sacro, come fiori della vita, rose canine e pentacoli.
Tutte queste caratteristiche, senza dubbio, rendono il monastero di Subiaco uno dei luoghi più spirituali e suggestivi d’Italia e pertanto ne consiglio vivamente la visita che lascia non solo una grande pace interiore ma anche la sensazione di essere finiti tra le righe di un testo segreto contenente la soluzione per svelare il grande mistero della vita e del cosmo.






«Tutto ciò che è in alto è come ciò che è in basso, tutto ciò che è in basso è come ciò che è in alto».(Ermete Trismegisto)

martedì 15 maggio 2012

L’ABBAZIA DI SAN GALGANO


L’abbazia di San Galgano, in provincia di Siena, è uno dei primi esempi di architettura gotica cistercense in Italia.
Edificata tra il 1220 ed il 1268, è adesso un antico rudere che tuttavia si staglia ancora imponente nel mezzo della campagna toscana a testimonianza del suo glorioso passato.
Le prime cose che si notano appena varcata la soglia è l’abside con le sue grandi finestre a sesto acuto e l’ampio rosone che, ormai senza vetri, si spalancano come orbite vuote sul cielo ed il fatto che la chiesa sia priva di tetto, crollato nel 1768 dopo secoli di incuria. Camminando lungo la navata principale si viene subito colpiti dal silenzio, rotto di tanto in tanto dai timidi sussurri dei visitatori, dal soffiare del vento e dal tubare dei colombi, suoni che hanno ormai sostituito il canto dei salmi e delle sacre scritture, ed ammirando le imponenti colonne con i loro capitelli scolpiti con motivi tipicamente romanici, le volte e gli altri particolari architettonici progettati secondo i parametri della Geometria Sacra, di cui i monaci cistercensi erano grandi conoscitori, non si può non pensare a come doveva essere l’abbazia nel suo periodo di massimo splendore. Grazie ai numerosi privilegi che le erano stati concessi da imperatori come Enrico VI e Federico II e a cospicue donazioni private, essa era diventata un importante centro di riferimento per tutto il territorio senese, ma proprio la fama e la ricchezza contribuirono al suo declino: le scorribande degli eserciti mercenari fiorentini ed una amministrazione disattenta determinarono il graduale abbandono del complesso da parte dei monaci, che nel 1474 si ritirarono a Siena. L’abate commendatario arrivò addirittura a far rimuovere e a vendere la copertura di piombo, e nel 1789 San Galgano, ormai sconsacrata e fatiscente, fu trasformata in un’enorme cava di pietre per le case dei paesi limitrofi e poi in fattoria.
Posto su una collinetta a poche centinaia di metri dall’abbazia c’è l’eremo di Montesiepi, il nucleo originale del complesso monastico e fulcro della leggenda del santo di Chiusdino.
La vita di Galgano Guidotti ricorda per alcuni aspetti quella del più ben noto San Francesco di Assisi. Giovane nobile arrogante e presuntuoso, con un passato da cavaliere di ventura ed amante della bella vita, fu visitato in sogno dall’arcangelo Michele e condotto a Montesiepi, dove in uno spazio sotterraneo «... trovavasi dodici apostoli in una casa rotonda, li quali recavano uno libro aperto». Alzando gli occhi al cielo, Galgano vide una forma luminosa nell’aria e chiedendo agli apostoli cosa fosse, gli fu rivelato che si trattava della Maestà divina. Da quel momento iniziò la conversione del giovane che, noncurante della disperazione della madre e della fidanzata e dello scherno dei compagni cavalieri, predicò per Siena e dintorni ed infine si ritirò a vita eremitica. Come segno tangibile di rinuncia al proprio violento passato conficcò la propria spada in una roccia. Fu appoggiato a quell’arma-simbolo che egli morì di stenti all’età di soli trentatre anni. Secondo la tradizione, la spada che si trova infissa, da più di otto secoli, in una pietra al centro dell’eremo è proprio quella di Galgano.
L’eremo di Montesiepi, chiamato anche Rotonda, fu edificato subito dopo la morte del Santo, tra il 1182 ed il 1185. Il fatto che sia a pianta circolare, una forma che nel Medioevo era collegata al mondo pagano in quanto ricordava i templi ed i mausolei romani e le tipiche tombe etrusche “a tumulo”, e perciò automaticamente al Male, ha scatenato una ridda di ipotesi fra chi ha visto nella scelta di tale figura un significato nascosto. In realtà, è possibile che la Rotonda sia l’ennesima rappresentazione dell’Anastasis di Gerusalemme, la cappella fatta costruire dall’imperatore Costantino sopra il presunto Sepolcro di Gesù Cristo, in quanto era consuetudine erigere lungo le principali vie di pellegrinaggio edifici che riproducessero i luoghi sacri della Terrasanta. L’impianto circolare è, inoltre, caratteristico dei luoghi di culto consacrati all’Arcangelo Michele, il comandante supremo dell’esercito celeste che apparve in sogno al nobile cavaliere di Chiusdino spingendolo a cambiare il proprio percorso di vita.
È tuttavia indiscutibile che il cerchio sia una figura fondamentale della geometria occulta. Non avendo né inizio né fine, esso esprime l’eternità ma è anche utilizzato per rappresentare la caverna, il centro della Terra, e a questo proposito, c’è un racconto secondo cui l’arcangelo Michele sarebbe apparso, un giorno, a San Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto (l’odierna Manfredonia), ed indicandogli una caverna sul Monte Gargano, in cui originariamente si tenevano riti pagani, lo avrebbe invitato a dedicarla alla fede cristiana: da lì il culto dell’arcangelo si sarebbe poi diffuso in tutta Europa. Questo aspetto si fa interessante se pensiamo che la tradizione vuole che l’eremo di Montesiepi sia stato costruito proprio sopra una grotta, la stessa in cui San Galgano avrebbe trascorso i suoi ultimi anni di vita, e che sempre in una cavità sotterranea egli abbia visto, in sogno, gli apostoli e la Maestà Divina.
Il cerchio ha un ulteriore significato: simboleggia infatti l’utero materno e se alla caverna/utero associamo la presenza di acqua, elemento inequivocabilmente femminile, (sotto la Rotonda confluiscono due corsi di acqua), e la spada, simbolo inequivocabilmente maschile, la cui caratteristica forma a croce evidenzia la congiunzione dei due principi, ecco che tutto ci riconduce ad antichi riti di fertilità. Il nome Montesiepi (Mons saeptus) indica chiaramente una altura con septa cioè con divisori che, in passato, potrebbero aver delimitato delle aree destinate a particolari cerimonie; inoltre, originariamente, Montesiepi era chiamato Cerboli, che rimanda al cervo, animale sacro al popolo dei Celti, ed automaticamente al dio Cernunnos, signore della Natura, ma anche a Cerbero, mostruosa creatura della mitologia greca a guardia dell’ingresso dell’Oltretomba.
Nelle campagne le tradizioni pagane avevano radici particolarmente profonde e Cristianesimo e Paganesimo spesso si fondevano dando vita a quella particolare combinazione di sacro e profano che ritroviamo in numerosi temi popolari. Anche il sogno di Galgano presenta tutti gli elementi caratteristici della mitologia di molte culture pre-cristiane e sembra descrivere un vero e proprio percorso iniziatico di morte e di rinascita che ricorda la discesa agli inferi compiuta dalla babilonese Ishtar, dal sumero Gilgamesh, dai greci Enea, Ulisse, Orfeo e Persefone e da molti eroi celtici.
Prima di giungere a destino, l’eroe-cavaliere Galgano deve attraversare un ponte altissimo e malfermo (il tramite fra mondo terreno ed ultraterreno) sotto cui scorre un fiume impetuoso (l’acqua che rigenera, la Fonte della Vita), poi un prato fiorito (simbolo della caducità delle cose terrene) e solo allora, attraverso un varco sotterraneo (l’accesso al Mondo Inferiore), egli raggiunge uno spazio circolare (il grembo della Madre Terra) in cui ha la visione dei dodici apostoli o saggi, a seconda delle varie versioni, e della forza creatrice sotto forma di luce abbagliante (la rinascita). Il numero dodici gioca a sua volta un ruolo fondamentale poiché, oltre ad essere collegato al simbolismo della ruota e perciò nuovamente al cerchio, esprime anche il ricongiungimento dell’uomo con la divinità.
Mancando documenti contemporanei a Galgano (i più antichi in nostro possesso sono tre Vitae risalenti al 1300), è ovvio che la storia del cavaliere-eremita presenti molti punti oscuri. Di un fatto in particolare però siamo certi: fu beatificato in tempi brevissimi e decretato patrono di Siena e poco dopo fu sostituito e declassato a santo minore senza alcuna ragione apparente. È logico supporre che la nomina a patrono abbia focalizzato su questo personaggio, già di per sé eccezionale, una notevole attenzione e di sicuro richiamò nella zona numerosi fedeli. Il declassamento a “santuccio è stato spiegato come un’opera di copertura voluta dalla Chiesa per porre rimedio ad una situazione inaspettata ed imbarazzante, forse addirittura ad un movimento eretico.
È innegabile che in quell’epoca di fervore spirituale le foreste e le zone più impervie fossero popolate da folle di eremiti - spesso ex-crociati che per andare a combattere in Terrasanta si erano lasciati alle spalle tutti i loro averi - che, proclamando con l’esempio e la parola l’umiltà, la povertà e la purezza, si rifacevano, più o meno consapevolmente, alle dottrine degli eretici Catari che, dalla Francia, si erano diffusi anche in Italia, a volte aggregandosi ai membri delle varie comunità monastiche.
La scelta di Galgano di rinunciare alle armi, di svolgere una iniziale attività di predicatore itinerante, di vivere in rigorosa ascesi, di praticare la castità, di nutrirsi esclusivamente di erbe selvatiche e di pane e di lasciarsi morire di stenti ricorda il lungo e duro cammino che veniva intrapreso dai boni homines catari e che, nei casi più estremi, poteva sfociare nel suicidio rituale attraverso il digiuno, l’endura, come forma radicale di rifiuto dei beni terreni e del proprio corpo. Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che le grotte spesso fungevano da luoghi di iniziazione per i giovani neofiti catari e che, nel famoso sogno, gli apostoli o saggi «recavano uno libro aperto» che potrebbe ricollegarsi al secretum, il libro segreto dei Catari, ecco che abbiamo già numerosi elementi a sostegno dell’ipotesi sopra citata. Purtroppo, non esistendo dati certi che comprovino l’identità storica di Galgano, possiamo solo fare delle congetture, ma se questi fosse realmente vissuto e fosse stato al centro di un importante movimento ereticale, di sicuro la Chiesa si sarebbe affrettata a far sparire ogni prova scritta relativa ad un personaggio fin troppo amato dal popolo e perciò estremamente scomodo.
Nel centro dell’eremo di Montesiepi c’è la presunta spada del santo, conficcata saldamente in un blocco di pietra e ben protetta da una spessa cupola di plexiglas anti-vandalo, collocata dopo che, diversi anni fa, qualcuno spezzò la lama nel tentativo di rubarla. La modernissima teca, inserita nel suggestivo contesto romanico dell’eremo, per fortuna non riesce del tutto a smorzare la magia che circonda quest’arma dalla linea semplice e pulita, che, come la mitica spada di Re Artù, sembra attendere che un cavaliere puro di cuore la estragga dal suo letto di pietra. Si è addirittura ipotizzato che essa possa aver ispirato la leggenda di Excalibur in terra di Bretagna anche se è impossibile dire attraverso quali canali di circolazione. Se l’arma risalisse realmente al 1180, la sua storia precederebbe di anni quella della più ben nota “spada nella roccia”. Il nome stesso di Galgano è molto simile a quello di uno dei Cavalieri della Tavola Rotonda: Sir Gawain, italianizzato in Galvano, nobile protagonista del poema Sir Gawain and the Green Knight, di anonimo, databile al XIV secolo. Non mi sento di scartare a priori una possibile influenza del mito del santo di Chiusdino su quello bretone: gli apostoli o saggi del sogno sono dodici come i cavalieri di Re Artù, l’edificio in cui essi sono riuniti è circolare come la Tavola Rotonda e la forma luminosa che il giovane cavaliere Galgano/Galvano vede librarsi nell’aria può essere paragonata alla visione “celestiale” del Graal descritta nei romanzi del ciclo arturiano. C’è un’altra importante considerazione da fare: l’arcangelo Michele, colui che guida Galgano durante il suo cammino iniziatico, secondo un’antica leggenda ripresa da Wolfram von Eschenbach per il suo Parzival (circa 1200), poema ambientato alla corte di Artù, avrebbe colpito con la propria spada Lucifero durante un epico scontro, facendogli cadere dalla fronte uno smeraldo, ritrovato poi dal saggio re Salomone e trasformato in una coppa per libagioni: la coppa che sarebbe stata successivamente usata da Gesù Cristo durante l’Ultima Cena, il Sacro Graal.
L’eremo di Montesiepi compare nella lunga lista di luoghi candidati a nascondiglio del sacro calice. Secondo lo studioso Vincenzo Dell’Aere, l’enigmatica iscrizione, apparentemente senza senso, che si trova nella basilica di San Nicola di Bari indicherebbe proprio il sacello dell’Eremo di Galvano (Galgano) come luogo di provenienza del sacro Gradale (Graal). L’Eremo di Montesiepi, inoltre, presenta un curioso tetto a cupola formato da cerchi concentrici che richiama alla mente l’immagine di una coppa rovesciata e che potrebbe essere pertanto un ulteriore indizio a favore della teoria graalica, anche se, più probabilmente, si tratta della raffigurazione della volta celeste. Con le sue fasce cromatiche esso trasmette una sensazione di vertigine, tanto che si ha l’impressione di essere risucchiati in un vortice verso l’alto: forse l’obiettivo dell’architetto era quello di rappresentare simbolicamente il viaggio dell’anima verso l’infinito.
È interessante che figure spiraliformi, costituite da più anelli concentrici, siano state rinvenute incise sulle pareti di alcuni edifici appartenenti all’Ordine dei Cavalieri Templari. Non è nuova la teoria che nell’edificazione dell’eremo di Montesiepi vi sia stata una influenza templare e benché a confutare questa ipotesi ci sia il fatto che i Cavalieri del Tempio giunsero a Chiusdino parecchi anni dopo la morte di Galgano, nel territorio senese esistevano già da tempo alcune magioni. In effetti molte delle cappelle dell’Ordine avevano forma circolare (ne è un esempio la famosa Temple Church a Londra) ed inoltre nella sala capitolare dell’abbazia di San Galgano, su una volta, è ben visibile un cosiddetto “nodo di Salomone” o nodo templare, mentre sul capitello di una delle colonne della chiesa spicca una piccola testa barbuta, che identificata con quella del mastro scalpellino Ugolino di Maffeo potrebbe invece rappresentare la testa di Giovanni Battista, santo patrono dei Templari. Da segnalare, infine, che a pochi chilometri dal sito monastico c’è località Mulinaccio, che deve il suo nome alla presenza di un mulino di proprietà dell’abbazia che, tuttavia, nell’atto di concessione ai monaci cistercensi, era già stato definito vetus ovvero vecchio: a chi apparteneva prima di passare ai monaci? Molte importanti precettorie templari sorgevano nei pressi di corsi d'acqua ed avevano il proprio mulino.
Sul lato nord dell’eremo di Montesiepi c’è una cappelletta realizzata nel 1300 ed affrescata da Ambrogio Lorenzetti. Nel dipinto sopra l’altare si nota, abbigliato con le tipiche vesti da Cistercense, San Bernardo di Chiaravalle, figura indissolubilmente legata all’Ordine del Tempio in quanto ne caldeggiò presso il Papa la costituzione e ne redasse la Regola basata su quella benedettina, ma anche grande studioso del fenomeno del Catarismo, tanto da stilare un dettagliato rapporto per papa Innocenzo III giunto a noi in versione integrale. C’è anche una bellissima Madonna in trono con il Bambino che presenta una peculiarità: ha infatti tre mani. Tale anomalia è stata attribuita ad un (improbabile) errore dell’artista, per alcuni, invece, il dipinto celerebbe una oscura simbologia, ma l’ipotesi più verosimile è che questa singolarità sia dovuta ad una sovrapposizione di più affreschi. Tuttavia, la Madonna con tre mani raffigurata assieme al Bambin Gesù non è affatto una rarità: detta Tricherusa è, ad esempio, molto frequente nell’iconografia ortodossa.
Appoggiata ad una parete della cappella c’è una teca di vetro coperta da un drappo di stoffa rossa. Contiene due arti umani mummificati, mani ed avambracci, che secondo l’agiografia apparterrebbero agli “uomini invidiosi” che, nel 1181, tentarono di estrarre la spada dalla roccia per distruggerla mentre Galgano era assente e che per questo furono colpiti da un fulmine e sbranati da un lupo. Ripensando ai vandali che hanno danneggiato la spada per rubarla, arrivando addirittura a trapanarla, ci si rendo conto di come siano cambiati i tempi e con essi anche le punizioni divine. Difficile dire a chi appartengano realmente quei macabri reperti anche se con la radio-datazione è stato possibile stabilire che risalgono al XII secolo ed è stato pertanto ipotizzato che possano essere i resti dei primi seguaci del santo eremita: viene però da chiedersi se possano invece appartenere ad un unico individuo, forse allo stesso santo, dato che al momento, l’unica reliquia attribuita a Galgano è il cranio, conservato nella chiesa di San Michele di Chiusdino. Sarebbe dunque opinabile un test del DNA per poter accertare un eventuale collegamento tra il teschio e gli arti mummificati.
È curioso che delle reliquie del santo, che sarebbero andate disperse dopo la caduta della Repubblica di Siena, sia rimasta soltanto la testa, come se questa fosse stata oggetto di una particolare venerazione e perciò più meritevole di essere posta in salvo rispetto al resto del corpo. Per i Celti il cranio era considerato un ricettacolo di poteri occulti e per questa ragione occupava un posto di primo piano nei culti druidici, una tradizione che sembra essere stata ripresa dai Templari. È stato dimostrato che l’Ordine possedesse idoli a forma di testa con più od una sola faccia ed anche crani umani e la maggior parte delle sepolture dei Poveri Cavalieri di Cristo era riconoscibile dalla raffigurazione di due tibie incrociate sormontate da un teschio.
A questo punto possiamo trarre delle interessanti conclusioni.
Galgano era in origine un nobile cavaliere, anche se non ci è dato sapere se appartenesse ad un ordine specifico, ma poiché i Templari erano spesso reclutati tra i giovani nobili, erano organizzati come un vero e proprio ordine monastico tanto da essere definiti “simili ad eremiti” e non si esclude la possibilità che tra di essi fossero circolate pericolose idee catare, che forse furono alla base dell’accusa di eresia mossa contro l’Ordine, ecco che si viene a creare una trama molto più complessa di quanto possiamo immaginare.
Di sicuro all’affascinante storia di San Galgano non possiamo ancora porre la scritta fine.