venerdì 11 maggio 2012

BREVE STORIA DI UN MITO

Graal.
Una parola magica che spalanca le porte di un mondo lontano da cui provengono le eco delle gesta eroiche e degli amor cortesi di cavalieri erranti.

È un argomento che, malgrado l’età, sembra non tramontare mai: se ne parla infatti da secoli, tra alti e bassi, e di recente è tornato prepotentemente alla ribalta grazie ad una serie di libri e di programmi televisivi, alcuni piuttosto discutibili, che hanno avuto il pregio di rimettere in moto la queste, la cerca.
L’enigma ha origini antiche: risale al XII secolo, quando il Graal fa la sua prima apparizione sotto forma letteraria nel Perceval ou le conte du Graal, romanzo in versi ambientato alla corte di Re Artù e dei suoi Cavalieri della Tavola Rotonda. L’opera fu scritta, su richiesta di Filippo di Fiandra, da Chrétien de Troyes, uno dei maggiori autori francesi del Medioevo di cui, tuttavia, conosciamo ben poco. Durante un misterioso corteo a cui assiste il giovane Perceval, una bellissima fanciulla dal portamento nobile e riccamente vestita appare portando tra le mani un graal di oro fino tempestato di splendide pietre preziose, emanante una «luce sì immensa che le candele persero il loro chiarore, come stelle quando sorge il sole o la luna». In testa al corteo uno scudiero reca una scintillante lancia insanguinata mentre al termine di esso un’altra fanciulla regge un vassoio d’argento. L’autore non specifica se il graal sia una coppa o un piatto o un qualche contenitore particolare, ma soltanto: «Un graal entre ses deus mains/une damoisele tenoit». In seguito, dopo che Perceval avrà affrontato numerose peripezie, sarà rivelato che il graal non contiene «lucci, lamprede o salmoni», come si potrebbe immaginare, ma soltanto un’ostia.
Il termine graal probabilmente deriva dal latino gradalis (tazza, vaso): in francese arcaico con questo termine si indicava una scodella o una coppa poco profonda in cui, solitamente, erano serviti cibi raffinati, dunque è evidente che il graal di Chrétien de Troyes non possedesse ancora le caratteristiche magico-esoteriche che troviamo negli scritti successivi, ma che fosse un oggetto di uso domestico. Tuttavia egli ne fa il perno del suo racconto, gettando così le basi di una delle più famose leggende della storia dell’umanità.
Il romanzo, rimasto incompiuto, fu ripreso e rielaborato da altri scrittori (ben 14), molti rimasti anonimi, ognuno dei quali contribuì all’evoluzione del mito.
È il caso del poeta francese Robert de Boron (fine XII-inizi XIII sec.), il primo a dare una connotazione puramente “cristiana” a questa storia e ad attribuire al Graal poteri sovrannaturali. Nel suo Joseph d’Arimathie ou le Roman du l’Estoire du Graal egli lo descrive come il calice con il quale Gesù Cristo celebrò l’Ultima Cena ed in seguito usato da Giuseppe di Arimatea, ricco commerciante e discepolo segreto di Gesù, per raccogliere il sangue del Cristo crocefisso, mentre la lancia insanguinata che apre il misterioso corteo diviene l’arma con cui il centurione Longino trafisse il costato di Gesù.
Il tedesco Wolfram von Eschenbach (ca. 1170), nel suo poema Parzival, ne cambia però i connotati e lo trasforma in un prezioso smeraldo staccatosi dalla corona di Lucifero durante l’epico scontro tra gli angeli ribelli e gli angeli del Signore: la lapsit exillis, interpretata come lapis ex coelis cioè la pietra caduta dai cieli. Questa pietra «della natura più pura» e dalle virtù straordinarie, che può essere toccata soltanto da chi è moralmente ineccepibile, è custodita nel Castello di Munsalwaesche da un gruppo di Cavalieri, «puri come angeli», definiti templeisen (un possibile richiamo ai Templari).
Eschenbach, oltre ad essersi ispirato al romanzo di de Troyes, tuttavia discostandosene per molti versi, avrebbe attinto le proprie informazioni da un libro scritto da un certo Kyot di Provenza (forse identificabile in Guiot de Provins, trovatore, divenuto poi monaco cluniacense dopo aver partecipato ad una o più Crociate in Terra Santa), che, a sua volta, sarebbe venuto a conoscenza dell’identità del Graal da un testo antecedente scritto dall’arabo Flegetanis, esperto astrologo ed astronomo e presunto discendente di re Salomone. In realtà, Flegetanis non sarebbe mai esistito ed il nome sarebbe la traduzione del titolo di un trattato arabo di astrologia, il Felek-Thani (La Seconda Sfera): in quest’opera si parla infatti di sette pietre rappresentanti le sette possibili forme di saggezza, di cui la Pietra Suprema è quella della Saggezza Universale.
Nel Grand Graal (XIII sec.), di anonimo, il Graal subisce una ulteriore trasformazione e diventa un libro scritto da Gesù stesso, «... alla cui lettura può accedere solo chi è in grazia di Dio». Un libro di potere, apocalittico, contenente verità «impronunciabili da lingua mortale» tanto che se ciò dovesse accadere «i cieli diluvierebbero, l’aria tremerebbe, la terra sprofonderebbe e l’acqua cambierebbe colore».
È probabile che all’origine del Graal vi siano antichi miti celtici, adeguatamente cristianizzati a scopo propagandistico. In molte leggende celtiche appaiono calderoni o coppe dalle magiche virtù: dell’abbondanza, in grado di ridare la vita ai defunti, di donare l’immortalità o l’eterna giovinezza. Il più famoso è il Calderone di Dagda, donato ai loro sudditi, assieme ad altri tre oggetti, dai Tuatha dè Danaan, leggendari colonizzatori dell’Irlanda provenienti dallo spazio siderale: un oggetto/simbolo dal quale l’eroe, solo dopo aver superato temibili prove, attinge saggezza e si rinnova, sia fisicamente sia spiritualmente. È interessante notare come, nelle varie leggende graaliche, ricompaiano, convenientemente modificati secondo l’ottica cristiana, anche gli altri mitici oggetti dei Danaan - una pietra, una spada e una lancia - e come i cavalieri che partono alla conquista del Graal debbano sempre portare a termine pericolose prove, probabilmente facenti parte di un rito iniziatico per poter ottenere sapienza e forza interiore.
Nella tradizione cristiana, oltre al calice dell’Ultima Cena del quale troviamo menzione sia nei Vangeli sinottici sia negli apocrifi Pseudo Vangelo di Nicodemo e Gesta Pilati, esiste un altro “contenitore” sacro: il ventre di Maria di Nazareth, madre del Figlio di Dio, il «vaso spirituale, dell’onore e di unica devozione».
Recentemente, si è imposta all’attenzione un’altra figura femminile che continua ad essere al centro di dibattiti e che ha alimentato un filone letterario apparentemente inesauribile: la Maddalena, la prostituta redenta dei Vangeli che, secondo alcune controverse ipotesi, sarebbe stata in realtà la sposa di Cristo e che avrebbe dato origine al Sang Real (Sang Royal - Santo Graal), la linea di sangue reale dei discendenti di Gesù. Da un lato la vergine Maria, dall’altro la carnale Maddalena: che siano personaggi storici o puramente simbolici, esse rappresentano due aspetti diversi dell’eterno principio femminile, della Grande Madre dal cui grembo/calice nasce ogni forma di vita, la dea dai mille nomi e dai mille volti, sicuramente la divinità più antica che sia mai stata adorata nella storia dell’umanità. Dobbiamo infatti tornare indietro nei millenni, fino al paleolitico, per trovare le origini di questo culto: sono di questo periodo le note Veneri, statuette femminili che, con i loro ventri accentuati, inneggiano alla fertilità e al mistero della nascita.
Altrettanto antico è il culto delle pietre e delle rocce sacre che, come quello della Dea Madre, troviamo diffuso in tutte le civiltà. Di esempi ce ne sono moltissimi: dalle pietre oracolari utilizzate a scopo divinatorio all’omphalos di Delfi, dai dolmen e menhir alla shethiyah su cui poggiava l’Arca dell’Alleanza, dalle pietre Urim e Tumin poste, per ordine di Dio, sul Pettorale del Giudizio del Sommo Sacerdote di Israele allo Shamir, portentoso gioiello che irradiava luce incastonato nell’anello di Re Salomone, dalla pietra di Betel di Giacobbe alla Tavola di Smeraldo di Ermete Trismegisto, dalla pietra egizia Benben alla Kaaba islamica, dalla pietra filosofale degli alchimisti al Cristo stesso, definito “pietra angolare”. Pietre che permettevano all’uomo di comunicare con la divinità e di compiere imprese strabilianti, ma anche su cui erano incisi segreti riservati soltanto agli adepti di determinati culti misterici.
Si racconta che una “pietra di luce” facesse parte del presunto tesoro dei Catari. Quello del Catarismo (XII, XIII, XIV sec. d.C.) fu un fenomeno eretico di vastissima portata, tanto da essere considerato «la grande alternativa religiosa al Cattolicesimo». I Catari si definivano gli autentici custodi della vera tradizione cristiana ed erano in netta contrapposizione con la Chiesa di Roma che essi reputavano blasfema e corrotta. Per questo motivo furono votati alla persecuzione e all’annientamento: per spazzare via questa pericolosa eresia che si stava spandendo a macchia d’olio fu creata l’Inquisizione, fu fondato l’ordine monastico dei Domenicani ed infine fu lanciata una terribile Crociata che vide il massacro di migliaia tra uomini, donne e bambini. Ma al di là dei fatti storici, i Catari sono entrati nella leggenda: nella leggenda del Graal. Essi sarebbero stati i detentori di un importante segreto, i custodi di un tesoro che «... non è sicuramente né oro né argento» in quanto essi predicavano la povertà: per Otto Rahn, archeologo tedesco arruolato per ragion di stato nel Terzo Reich e che fu posto a capo di un gruppo speciale di SS dedito alla ricerca di oggetti “di potere” per conto di Hitler, i Catari erano i veri guardiani del Graal, simbolizzato da una pietra luminosa. Come tale, essa non può che richiamare alla mente lo smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero nel poema di von Eschenbach! Potrebbe tuttavia non trattarsi di un oggetto fisico, di un cristallo o di una pietra dai particolari poteri o di un frammento meteoritico, come è stato anche ipotizzato, bensì di un riferimento al Fuoco Sacro, simbolo della Conoscenza, adorato dai seguaci dello Zoroastrismo, una delle più antiche religioni dell’Iran pre-islamico. Si ritiene infatti che lo Zoroastrismo abbia avuto una larga influenza sia sul Giudaismo che sul Cristianesimo e che dopo la sua soppressione alcune delle sue dottrine siano state ereditate da gruppi eretici tra cui quello dei Catari. Sappiamo che i testi sacri alla base della dottrina catara erano soprattutto il Vangelo di San Giovanni, le Epistole di San Paolo ed i Vangeli apocrifi. Si potrebbe perciò ipotizzare che il “tesoro” fosse stato costituito da uno o più testi sacri, forse il Vangelo originale di Giovanni o addirittura un Vangelo di cui soltanto gli iniziati conoscevano l’esistenza, un testo capace di incutere timore all’ortodossia romana per i suoi contenuti sconvolgenti: si parla degli insegnamenti originali di Gesù Cristo o addirittura di un Vangelo scritto da Cristo stesso. Ma non è proprio quello che rivelava il già citato Le Grand Graal di autore anonimo? Il Graal/libro, quello contenente «verità impronunciabili».
A questo punto viene spontaneo chiedersi che cosa sia in realtà il Graal e soprattutto se sia o no esistito. Si è versato e si continua a versare fiumi di inchiostro sull’argomento, cercando di trovare una risposta e di mettere una volta per tutte la parola fine ad una storia che dura da tempo immemorabile. In questa corsa affannosa alla verità a tutti costi si tende spesso a perdere di vista un’altra grande verità, che forse è l’unica: non esiste un solo Graal.
Von Eschenbach è l’autore che, inconsapevolmente, ne ha fornito la descrizione più appropriata: quella di una gemma preziosa. Proprio come una gemma, il Graal è costituito da una miriade di facce che “riflettono” le aspettative di coloro che lo cercano e per questo motivo cambia, si trasforma continuamente. Per chi ha un approccio prettamente storico-scientifico è un manufatto con caratteristiche ben precise, legato alla figura del Cristo o addirittura antecedente. Per lo scettico è soltanto una leggenda come tante. Per il sognatore è un nobile ideale. Per il saggio è la Sapienza. Per il cercatore spirituale è un percorso iniziatico che viene tramandato da generazioni.
Di qualunque cosa si tratti, il Graal è soprattutto ricerca: una ricerca proiettata verso il mondo esterno che è anche un lungo viaggio nei luoghi dell’Anima.

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