venerdì 11 maggio 2012

EGITTO: TERRA ANTICA, ANTICHI RICORDI

dedicato a mia nonna

Mentre sto scrivendo sono improvvisamente assalita da ricordi e da odori lontani. La mia mente torna ad uno dei momenti più felici della mia vita quando ero ancora una ragazzina con la testa piena di sogni e di progetti irrealizzabili. Dopo anni di insistenza, di musi lunghi e di cataloghi di viaggi lasciati in punti strategici della casa, avevo finalmente ottenuto il tanto desiderato viaggio in Egitto, un luogo che, fin da quando ero bambina, aveva esercitato su di me un richiamo irresistibile.
Non potrò mai dimenticare l’emozione quando, scendendo all’aeroporto del Cairo, fui investita da un vento torrido che sapeva di deserto e di storia millenaria. Durante il trasferimento verso l’hotel, intravidi in lontananza la Grande Piramide che, con la sua punta, perforava il cielo. Fu uno shock perché soltanto allora mi resi veramente conto di dove mi trovavo: nella mitica terra dei Faraoni.
La mattina seguente, dopo essere stata svegliata di buon ora dal canto amplificato di un muezzin, affrontai gli indovinelli della Sfinge: la fissai a lungo negli occhi ma non riuscii, neanche per un istante, a penetrare il pesante velo di leggenda che ricopre da sempre quelle pupille di pietra. Avevo miseramente fallito: non avevo risolto l’enigma ma per fortuna la muta Sfinge non mi avrebbe divorata tra le sue fauci. Quello sguardo carico di interrogativi e di nostalgia per un passato ormai morto aveva però acceso in me la scintilla della passione per il mistero: una fiammella che negli anni successivi si sarebbe trasformata in un vero e proprio fuoco.
Prima che il mondo fosse scosso dagli attentati di Al Quaeda, si poteva tranquillamente girare per le strade affollate della capitale egiziana, vivere di prima persona gli usi e costumi della sua gente e scoprire tanti piccoli ed affascinanti segreti: il rito del tè alla menta bevuto ai bassi tavolini sparsi sui marciapiedi, le contrattazioni tra il bianco delle lunghe gallabeya di cotone, il rosso dell’infuso di karkadè ed il nero di spezie profumate in mostra sulle bancarelle del suggestivo mercato di Khan el Khalili, una corsa sulle pittoresche carrozzelle nel traffico intenso, una visita alle moschee silenziose con i piedi avvolti in enormi pantofole informi. Gli unici problemi, allora, erano il caldo soffocante ed il continuo assalto da parte dei venditori ambulanti che ti seguivano ovunque come ombre rumorose. C’erano quelli che con fare circospetto estraevano da sotto le vesti sporche “preziosi” scarabei o altri manufatti “originali” ritrovati in questa e quella tomba ed altri invece che ti spingevano prepotentemente tra le braccia la loro mercanzia, urlandoti in faccia una interminabile sfilza di prezzi: uno arrivò addirittura a lanciare un pesante busto di gesso attraverso il finestrino semi-aperto del nostro pullman, mancando per poco la testa di una signora che stava tranquillamente sonnecchiando!
La nostra guida era un arabo di mezza età che con i suoi racconti era in grado di far rivivere i fasti del regno di Ramses il Grande o della regina Hatshepsut. Ricordo ancora con un brivido di eccitazione quando, un tardo pomeriggio, ci accompagnò allo splendido Tempio di Karnak per assistere allo spettacolo di “Suoni e Luci” che si teneva nell’ampio cortile porticato: appena calava la notte le mura imponenti erano accese da mille bagliori colorati ed animate da voci e musiche, come se, per un incantesimo formulato da qualche potente sacerdote, gli spiriti degli antichi abitanti di quella terra fossero stati richiamati dall’Aldilà per narrare ai posteri la propria storia. Al ritorno notai una triade di statue che in seguito scoprii essere composta da Amon, il Creatore, dalla sua sposa Mut e dal figlio Khonsu: è una bellissima rappresentazione che esprime forza e regalità ma anche un profondo affetto, quello della divinità per la propria controparte femminile e per il frutto della loro unione. Ne rimasi affascinata (avrei avuto modo di ammirare altre triadi familiari tra cui quella più nota formata da Iside, Osiride e Horus) e dopo lunghe riflessioni mi resi conto che nel mio Credo mancava qualcosa di fondamentale. Soltanto in seguito avrei capito di cosa si trattava: una figura che col passare dei secoli era stata dimenticata, volutamente cancellata, colei che era con Dio prima che «Egli plasmasse qualsiasi altra creatura», prima «che venisse creata la terra» e che assieme a Lui «regolava tutte le cose».
Mentre la nave su cui mi ero imbarcata al Cairo scivolava lentamente lungo il Nilo, inseguita da frotte di ragazzini vocianti che correvano lungo gli argini, pensavo a quanto quel fiume pigro e fangoso avesse avuto una importanza basilare per la sopravvivenza della grande civiltà egiziana. Per gli antichi egizi il Bahr el-Nil aveva un proprio “spirito”, identificato con Hapy, opulenta divinità maschile raffigurata con grossi seni e ventre prominente: di nuovo la fusione dei due sessi come simbolo di fertilità e di abbondanza di cui il limo lasciato dalle inondazioni era la fonte primaria. Se esaminiamo il geroglifico dell’acqua (mu) vedremo una linea ondulata che ricorda il disegno stilizzato di un lampo o di una scarica elettrica: dopotutto l’acqua è all’origine della Vita e cos’è la Vita se non energia e movimento continuo? Nella religione egizia, la prima degli dei fu Nun, ovvero il Grande Oceano Primordiale che ricopriva tutto prima che la Terra fosse creata. È pertanto indicativo che questo importante elemento si ritrovi anche nel geroglifico che significa amare (un canale: dopotutto la Vita non ha inizio grazie ad un atto di amore?) e in quello che simboleggia la donna (un pozzo). Ripensando adesso all’immagine del pozzo (una coppa ricolma di acqua), osservata tante volte sulle pareti di tombe e palazzi, non posso fare a meno di associarla al Graal, il mitico calice contenente l’essenza di tutte le cose. Nell’antico Egitto con il segno del vaso si indicavano il cuore, sede della consapevolezza, della saggezza, della personalità e dell’anima stessa, ed il verbo “creare” e non è certo una coincidenza che nell’Antico Testamento il profeta Isaia descriva Dio come un vasaio che modella l’argilla informe per trasformarla nel Suo più grande capolavoro, il Creato. Ma l’argilla, per essere impastata e lavorata, ha bisogno di acqua, che è l’elemento femminile per eccellenza.
L’atto creativo, diciamolo pure, è una genuina opera alchemica: Dio plasma la sostanza primitiva in modo da realizzare un contenitore - vaso o coppa o aludel o Graal - che possa accogliere il Suo soffio che tutto anima e vivifica. Come spiega Gosset nelle sue Revelations Cabalistiques, lo Spirito di Dio è «per natura sottilissimo ed invisibile e non potrà mai apparire ai nostri occhi se non che lo si ricopra di una qualche materia visibile», ma l’autore anonimo della Clef du Cabinet Hermétique spiega che fondamentale per l’opera alchemica è l’acqua poiché «racchiude in sé tutte le virtù del cielo e della terra; per questo essa è il Solvente generale di ogni Natura, una vera e propria calamita che attira verso di sé tutte le influenze del cielo, del sole, della luna e degli astri, per comunicarle alla terra stessa». Maschio e femmina, lo zolfo e il mercurio, il sole e la luna, il re e la regina che, iconograficamente, rappresentano le Nozze Alchemiche, ovvero il congiungimento dei due opposti.
È forse un caso che molte apparizioni della Madonna, che è considerata dal punto di vista alchemico la personificazione della materia allo stato iniziale e perciò Vergine e che ha sostituito - nell’ottica cristiana - la primordiale forza femminile, siano avvenute in prossimità di sorgenti e fonti? Ed è forse un caso che le sue vesti siano solitamente azzurre come il colore dell’acqua?
Smetto di pormi domande e torno ai miei ricordi che, almeno, si basano su fatti e non su elaborate elucubrazioni (ma cosa ci posso fare, con l’età sono diventata più meditativa!).
Un giorno - eravamo ormai al termine della nostra navigazione - faceva particolarmente caldo perciò attendemmo il crepuscolo per visitare il Tempio di Kom Ombo dedicato al dio coccodrillo Sobek. Fu uno dei momenti più indimenticabili di tutto il viaggio. Non c’era quasi più nessuno in giro (neanche gli onnipresenti venditori) ed un gigantesco disco solare - Ra - aveva tinteggiato il Nilo di rosa. Ad un tratto un bambino mi si avvicinò timidamente e mi regalò un serpentello fatto di foglie intrecciate: era l’infantile rappresentazione di un cobra, il serpente sacro che spesso compare sui copricapi di re e dei e che simboleggia l’energia vitale dell’Universo. A quel tempo la cosa non mi colpì in particolar modo ma adesso quel dono inaspettato assume un significato nuovo. Eravamo sedute - mia madre, mia nonna ed io - fianco a fianco su un basso muricciolo del Tempio ad osservare il tramonto. Tre come il numero divino per antonomasia. Tre come le fasi della Luna. Tre come gli aspetti della Grande Madre e dell’esistenza stessa: la fanciulla, l’adulta e l’anziana, il futuro, il presente ed il passato. Quel bambino, forse, aveva inconsapevolmente percepito la potente e misteriosa magia che, in quel momento, si era venuta a creare attorno a noi: la magia della Vita che si riproduce in un ciclo infinito proprio come il sole muore ogni sera per rinascere il mattino seguente.
Io, invece, senza rendermene conto, avevo trovato il mio Graal.
Era l’amore che ci univa.


«La mia appartenenza è il tre,
tre che può essere anche uno;
molte cose appaiono come tre,
ma non sono più di una cosa sola.»
(Antica poesia Sufi)


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