venerdì 18 maggio 2012

Il Sacro Speco di Subiaco


Nel 1461 papa Pio II lo definì un “nido di rondini”.
Il Santuario benedettino di Subiaco o Sacro Speco, una splendida struttura costituita da vari ambienti che si aggrappano letteralmente alle rocce a strapiombo del Monte Taleo, assomiglia piuttosto ad un nido di aquila. Su questo monte, alla fine del V secolo, si ritirò in preghiera Benedetto da Norcia: una scelta estrema che ricorda quella di altri eremiti “eccellenti”.
Di famiglia benestante, Benedetto fu inviato a Roma per compiere gli studi superiori ma rimase così sconvolto dalla dissolutezza e dalla corruzione che imperversavano a quei tempi nella capitale che fuggì, assieme alla fedele nutrice, ad Affile, nell'alta valle dell'Aniene. Da Affile si recò, da solo, a Subiaco, il cui nucleo si era sviluppato attorno agli antichi resti di una villa neroniana e dove già esisteva un monastero, retto da un certo abate Adeodato. Il giovane, desideroso di pace assoluta, trovò riparo in una piccola grotta (lo Speco), posta ai piedi del monastero, nella quale rimase per ben tre anni in meditazione, vestito di semplici pelli di capra ed ignorato da tutti eccetto che da un monaco, di nome Romano, che, di tanto in tanto, gli calava con una corda un po’ di cibo dalla rupe sovrastante. Furono anni aspri e terribili durante i quali non mancarono i momenti di disperazione. Si racconta infatti che l’eremita, preso dallo sconforto, stava per abbandonare il suo rifugio ma riuscì a vincere la tentazione gettandosi nudo tra le ortiche ed i rovi. Dopo questo lungo periodo di solitudine egli iniziò a ricevere la visita di alcuni pastori della zona che egli prese ad istruire sulla vera Fede. Fu quindi richiesto come superiore del monastero di Vicovaro, vicino Tivoli, ma per la sua eccessiva austerità si attirò l’odio dei confratelli che tentarono di ucciderlo offrendogli un calice di vino avvelenato, che, per miracolo, si frantumò nel momento in cui Benedetto lo benedì con il segno della croce. Benedetto tornò allora a Subiaco dove raccolse attorno a sé numerosi discepoli di ogni età e condizione sociale, tra cui barbari Goti, dando così vita ad una nuova esperienza basata sull’uguaglianza, sulla fratellanza e sulla Regola dell’ora et labora (preghiera e lavoro), che si rifaceva alla tradizione dei monaci orientali e che ben presto sarebbe stata adottata da tutte le comunità monastiche d’Occidente. Al primo monastero che Benedetto fondò a Subiaco se ne aggiunsero altri dodici più piccoli, composti ciascuno da dodici monaci guidati da un abate, ma purtroppo l’invidia da parte del clero locale ed un nuovo tentativo di avvelenamento costrinsero Benedetto a lasciare la casa-madre assieme ad un gruppo di fedelissimi. Si diresse a Cassino dove, nel 529 circa, fondò sopra un pre-esistente tempio pagano dedicato al dio Apollo uno dei più celebri monasteri d’Europa: Montecassino. Benedetto vi morì il 21 marzo (primo giorno di primavera) in un anno imprecisato tra il 547 ed il 550.
Chi ha letto il precedente post su San Galgano avrà notato che esistono delle intriganti analogie tra le vite dei due santi: similitudini che ritroviamo nella storia di San Francesco d’Assisi, la cui immagine, una delle più antiche che sono giunte fino a noi, è dipinta su una parete del Sacro Speco. Tutti e tre provengono da famiglie abbienti: il padre di Benedetto è Capitano Generale dei romani a Norcia mentre la madre è una contessa, la famiglia di Galgano appartiene alla piccola nobiltà locale e quella di Francesco alla borghesia. Tutti e tre, ad un certo punto, decidono di spogliarsi di ogni loro avere per condurre una vita di ascesi a stretto contatto con la Terra: un ritorno alle origini, rappresentato dalla scelta di ritirarsi in una grotta per quanto riguarda Benedetto e Galgano e nelle foreste per quanto riguarda Francesco. Quest’ultimo, addirittura, dedicherà a Madre Natura e ai suoi quattro elementi un magnifico cantico, conosciuto come Cantico delle Creature o di Fratello Sole. Infine il numero dodici: dodici sono i monasteri che Benedetto fonda dopo quello di Subiaco e dodici sono i monaci che li compongono, dodici sono i saggi che Galgano vede in sogno, dodici sono i compagni con cui Francesco inizia la sua predicazione.
In numerologia il dodici riveste una notevole importanza. È definito, infatti, il numero della completezza poiché riunisce in sé la materia (5) e lo spirito (7) = 5 + 7, ed è anche il numero della manifestazione della Trinità (3) sulla Terra (4) = 3 X 4, e non è dunque  un caso che dodici siano le tribù di Israele citate nell’Antico Testamento, gli Apostoli di Gesù Cristo, i segni dello zodiaco, i pianeti, i mesi dell’anno e le fasi del processo alchemico. Da sottolineare, inoltre, che esso può identificarsi anche con il cerchio, che è la forma geometrica più perfetta. Nel suo libro Il Re Del Mondo (Roma, 1950), Renè Guenon riporta le parole di Saint-Yves d'Alveydre, figura di spicco nel campo dell'esoterismo: “il cerchio più elevato e più vicino al centro misterioso è composto da 12 membri che rappresentano l’iniziazione suprema (facoltà, virtù, conoscenza)”. A questo proposito è interessante notare come uno degli emblemi di San Benedetto sia il corvo. Fu infatti l’intervento miracoloso di questo animale a salvarlo dal secondo tentativo di omicidio perpetrato dall’invidioso prete Fiorenzo; dalla Chiesa Superiore dell’Abbazia si accede ad un ampio cortile detto appunto "dei Corvi". In passato, qui si allevavano alcuni corvi per ricordare che fu proprio uno di questi uccelli che sventò il tentativo di avvelenamento perpetrato ai danni di san Benedetto, portando via, tra il suo becco, la pagnotta avvelenata che il prete Fiorenzo aveva offerto al santo. In simbologia, il corvo è associato alla morte iniziatica a cui il neofita di ogni culto misterico deve sottoporsi per poter rinascere in un essere illuminato ed, in alchimia, per via del suo colore scuro, esso rappresenta il primo stadio di trasmutazione della materia, la nigredo o opera al nero, corrispondente al processo di putrefazione che “distrugge la vecchia natura” e trasforma i corpi “in un nuovo stato” per far loro ritrovare una nuova vita (Pernety, 1758). È proprio questa fase di completa trasformazione che il giovane Benedetto attraversa, rinunciando al proprio passato per intraprendere il rigoroso cammino del monaco.
Entrando nel Sacro Speco di Subiaco è difficile non rimanere colpiti dai numerosi riferimenti all’antichissima scienza dell’alchimia o scienza di Dio, il cui obiettivo era quello di perfezionare l’essere umano. I vivaci colori utilizzati per gli affreschi tra cui prevalgono il nero, il verde, il bianco, il rosso e l’oro, ognuno con un particolare significato secondo la tradizione alchemica, le complicate forme geometriche che decorano pavimenti e pareti, tra cui spiccano cerchi, nodi e labirinti, figure smaccatamente esoteriche, la presenza di scale che mettono in comunicazione i due livelli della chiesa, inferiore e superiore, e le varie cappelle che sembrano costituire un percorso spirituale ben preciso, esprimono tutti un messaggio divino volto a risvegliare e cambiare permanentemente chiunque decida di ascoltarlo, e la conferma ci arriva da Gregorio Magno quando cita, nel II libro dei suoi Dialoghi, l’episodio di una pazza che, fermatasi a dormire nello Speco, “Al sorgere del giorno ne uscì fuori, ma con la ragione in così perfetto equilibrio, come se non avesse mai sofferto di malattia mentale”.
Per accedere ai locali del santuario si deve passare attraverso una porta piccola e stretta che, di primo acchito, può sembrare incongruente rispetto all’imponente struttura circostante ma che in realtà vuole essere di monito al visitatore, il quale, se vorrà intraprendere il difficile cammino di crescita spirituale, dovrà farlo con grande umiltà, lasciando fuori le proprie smanie di grandezza ed il proprio orgoglio.
Un corridoio illuminato da archi immette nella sala detta del Capitolo Vecchio, dalla quale si entra nella Chiesa superiore. Solitamente è da questo livello che comincia la visita al complesso, tuttavia per il nostro viaggio dell’anima dobbiamo scendere e compiere il percorso a ritroso, partendo dal basso, dalla Sacra Grotta, simbolicamente illuminata da dodici lampade. In questo modo raggiungiamo la prima tappa, che è l’alchemica discesa nella materia informe, nel principio originale, nelle viscere della terra feconda in cui l’uomo, simile ad un seme, può spogliarsi lentamente del proprio involucro esterno e germogliare a nuova vita.
Dalla caverna si sale al piano superiore decorato con scene di vita di Benedetto, realizzate nel XIII secolo da un certo Magister Conxolus.
Di particolare interesse sono due affreschi, il “Miracolo del Goto” ed il “Miracolo di S. Placido”, nei quali troviamo raffigurato uno dei laghi artificiali che furono creati per la suntuosa villa di Nerone. L’elemento principale dei due dipinti è dunque l’acqua, la sorgente della Vita, che è collegata alla seconda fase dell’opera alchemica, l’albedo o bianchezza, perché è grazie al “lavaggio” che è possibile passare dalla nigredo all’albedo, dal colore nero al colore bianco, e non può essere una coincidenza che in tutte e due le scene l’artista abbia voluto contrapporre alla veste scura del santo l’assoluto biancore del lago neroniano. Tuttavia per portare a termine la seconda tappa di questo itinerario alchemico sono necessari altri due elementi, la luna e la Regina bianca. Il “Miracolo del Goto” è, in questo caso, piuttosto significativo in quanto San Benedetto è qui raffigurato mentre immerge nell’acqua il bastone del contadino Goto, ricongiungendo miracolosamente ad esso il falcetto caduto, la cui forma ricurva è proprio quella della luna crescente.
Passando sotto una volta decorata con pavoni e cigni e scendendo per la cosiddetta Scala Santa, arriviamo alla Cappella della Madonna. Abbiamo così trovato il terzo emblema dell’albedo, ovvero la Regina.
L’albedo è solitamente simboleggiata dalla figura della dea Venere/Afrodite identificata come “stella del mattino”, che, nelle Litanie Lauretane, è, guarda caso, un epiteto associato a Maria.
Nella Cappella a Lei dedicata si possono ammirare l'Annunciazione, la Vergine Madre della Chiesa, la Madonna in trono col Bambino, l'Assunzione e l'Incoronazione: in questi due ultimi affreschi, Maria è abbigliata di bianco. Secondo l’iconografia medioevale occidentale la veste candida la identificherebbe come la Madre-Chiesa sposa del Cristo, un concetto non dissimile da quello espresso in alchimia, secondo cui la Regina vestita di bianco è la sposa che incarna il principio femminile che, unendosi al principio maschile rappresentato dal Re vestito di rosso o sposo, realizza le nozze alchemiche, grazie alle quali spirito e materia diventano finalmente tutt’uno: è da questa fusione di opposti che si ottiene la perfezione. Gesù, considerato l’uomo alchemico per eccellenza poiché è colui che mostra la vera Via, è collegato al colore rosso che è quello del fuoco (Io sono venuto a mettere il fuoco nella terra, e come vorrei che fosse già acceso! - Luca, XII, 49) e quello del sangue che Egli ha versato per l’umanità e che altro non è che forza trasmutatrice.
Giungiamo all’ultimo livello, alla Chiesa superiore, dove si consuma, prima, il dramma del Cristo, simboleggiato dalla Passione e dalla maestosa Crocifissione alla quale assistono le pie donna, vestite a loro volta di bianco, ed infine si inneggia alla vittoria finale sulla morte, la Resurrezione, la fase conclusiva dell’Opera alchemica o rubedo, che trova espressione attraverso la mitica fenice che rinasce dalle proprie ceneri proprio come il Cristo risorge dal sepolcro.
Il cammino termina con la consapevolezza che porta l’uomo a riconoscere la propria divinità interiore e a ritrovare la scintilla del Dio-Padre in tutte le creature e in tutte le manifestazioni.
L’alchimia era scienza conosciuta ai monaci benedettini, i quali annoverarono tra le loro fila i noti studiosi Basilio Valentino e Dom Antoine Pernéty, e trovo alquanto indicativo che il fondatore dell’Ordine sia sfuggito a ben due tentativi di omicidio per mezzo del veleno, sostanza che nella tradizione alchemica simboleggia il Caos, e che sia il santo patrono dei chimici.
Può tuttavia sorprendere che dei semplici monaci fossero anche degli eruditi ma la ricerca del sapere era, ed è tuttora, una componente essenziale della vita dei Benedettini, che furono anche rinomati copisti e miniatori. Basti pensare che la giornata dei monaci è ancora oggi organizzata in modo da esserci sempre il tempo necessario da dedicare alla lettura e allo studio. Le biblioteche dell’Ordine erano considerate veri e propri centri di cultura, in quanto raccoglievano innumerevoli libri ed antichi manoscritti, sia di autori cristiani che pagani, provenienti da molte parti del mondo, ed è pertanto logico che tra questi figurassero anche preziosi testi alchemici ed esoterici. Un esempio fra tutti è il Codex Rhenovacensis che proviene dalla biblioteca dell'abbazia benedettina di Rheinau, presso Zurigo.
Se consideriamo il Graal una metafora della vera conoscenza che porta all’illuminazione è lecito affermare che il monastero benedettino, così ricco di simbolismi, racchiuda tra le sue mura l’essenza stessa del Graal; se identifichiamo il Graal con la Madre Terra, ricordiamo che nel Sacro Speco è preponderante la pietra che costituisce l’ossatura della Terra stessa, da quella del monte Taleo che letteralmente abbraccia il complesso a quella della grotta su cui esso è stato edificato; se infine lo riteniamo un oggetto di culto legato a Cristo ecco che ci attende un’ultima sorpresa: si tratta di un piccolo affresco, quasi nascosto nel fondo di una nicchia scavata in una delle pareti della Chiesa Superiore, che raffigura un giovane Gesù imberbe alla maniera bizantina con le tipiche ferite al costato e sul dorso delle mani da cui scendono rivoli di sangue ed un calice d’oro, posto ai suoi piedi, da cui emerge un’ostia insanguinata. Come se non bastasse, possiamo trovare riassunti i molteplici aspetti del Graal nello spettacolare pulpito di marmo, la cui copia è visibile anche lungo il sentiero che conduce al monastero. Sormontato da un’aquila, animale associato all’apostolo Giovanni ma anche messaggero solare e perciò portatore di luce, esso sfoggia, nei suoi riquadri, simboli arcaici dai profondi significati occulti legati alla sapienza, alla geometria divina, al femminino sacro, come fiori della vita, rose canine e pentacoli.
Tutte queste caratteristiche, senza dubbio, rendono il monastero di Subiaco uno dei luoghi più spirituali e suggestivi d’Italia e pertanto ne consiglio vivamente la visita che lascia non solo una grande pace interiore ma anche la sensazione di essere finiti tra le righe di un testo segreto contenente la soluzione per svelare il grande mistero della vita e del cosmo.






«Tutto ciò che è in alto è come ciò che è in basso, tutto ciò che è in basso è come ciò che è in alto».(Ermete Trismegisto)

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